Istruzione
La conversione pastorale
della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa
Introduzione
1. La riflessione ecclesiologica del Concilio Vaticano II e i notevoli cambiamenti sociali e culturali degli ultimi decenni hanno indotto diverse Chiese particolari a riorganizzare la forma di affidamento della cura pastorale delle comunità parrocchiali. Ciò ha consentito di avviare esperienze nuove, valorizzando la dimensione della comunione e attuando, sotto la guida dei pastori, una sintesi armonica di carismi e vocazioni a servizio dell’annuncio del Vangelo, che meglio corrisponda alle odierne esigenze dell’evangelizzazione.
Papa Francesco, all’inizio del suo ministero, ha ricordato l’importanza della “creatività”, che significa «cercare strade nuove», ossia «cercare la strada perché il Vangelo sia annunciato»; a tal proposito, ha concluso il Santo Padre, «la Chiesa, anche il Codice di Diritto Canonico ci dà tante, tante possibilità, tanta libertà per cercare queste cose»[1].
2. Le situazioni descritte dalla presente Istruzione rappresentano una preziosa occasione per la conversione pastorale in senso missionario. Sono infatti inviti alle comunità parrocchiali a uscire da se stesse, offrendo strumenti per una riforma, anche strutturale, orientata a uno stile di comunione e di collaborazione, di incontro e di vicinanza, di misericordia e di sollecitudine per l’annuncio del Vangelo.
I. La conversione pastorale
3. La conversione pastorale è uno dei temi fondamentali nella “nuova tappa dell’evangelizzazione”[2] che la Chiesa è chiamata oggi a promuovere, perché le comunità cristiane siano sempre di più centri propulsori dell’incontro con Cristo.
Per questo, il Santo Padre ha suggerito: «Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)»[3].
4. Sospinta da questa santa inquietudine, la Chiesa, «fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente dell’universalità della sua missione, può entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la Chiesa stessa quanto le varie culture»[4]. Infatti, l’incontro fecondo e creativo tra il Vangelo e la cultura conduce a un vero progresso: da una parte, la Parola di Dio si incarna nella storia degli uomini rinnovandola; dall’altra, «la Chiesa […] può essere arricchita, e lo è effettivamente, dallo sviluppo della vita sociale umana»[5], così daapprofondire la missione affidatale da Cristo, per meglio esprimerla nel tempo in cui vive.
5. La Chiesa annuncia che il Verbo, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Questa Parola di Dio, che ama dimorare tra gli uomini, nella sua inesauribile ricchezza[6] è stata accolta nel mondo intero da popoli diversi, promuovendone le più nobili aspirazioni, tra cui il desiderio di Dio, la dignità della vita di ogni persona, l’uguaglianza tra gli uomini e il rispetto per le differenze nell’unica famiglia umana, il dialogo come strumento di partecipazione, l’anelito alla pace, l’accoglienza come espressione di fraternità e solidarietà, la tutela responsabile del creato[7].
Non è pensabile, quindi, che una tale novità, la cui diffusione fino ai confini del mondo è ancora incompiuta, si affievolisca o, peggio, si dissolva[8]. Perché il cammino della Parola continui, occorre che nelle comunità cristiane si attui una decisa scelta missionaria, «capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione»[9].
II. La parrocchia nel contesto contemporaneo
6. Tale conversione missionaria, che porta naturalmente anche a una riforma delle strutture, riguarda in modo particolare la parrocchia, comunità convocata intorno alla Mensa della Parola e dell’Eucaristia.
La parrocchia possiede una lunga storia e ha avuto dagli inizi un ruolo fondamentale nella vita dei cristiani e nello sviluppo e nell’opera pastorale della Chiesa; già negli scritti di San Paolo se ne può intravvedere la prima intuizione. Alcuni testi paolini, infatti, mostrano la costituzione di piccole comunità come chiese domestiche, identificate dall’Apostolo semplicemente con il termine “casa” (cfr., ad esempio, Rm 16, 3-5; 1 Cor 16, 19-20; Fil 4, 22). In queste “case” si può scorgere il nascere delle prime “parrocchie”.
7. Sin dal suo sorgere, dunque, la parrocchia si pone come risposta a una esigenza pastorale precisa, portare il Vangelo vicino al Popolo attraverso l’annuncio della fede e la celebrazione dei sacramenti. La stessa etimologia del termine rende comprensibile il senso dell’istituzione: la parrocchia è una casa in mezzo alle case[10] e risponde alla logica dell’Incarnazione di Gesù Cristo, vivo e operante nella comunità umana. Essa, quindi, visivamente rappresentata dall’edificio di culto, è segno della presenza permanente del Signore Risorto in mezzo al suo Popolo.
8. La configurazione territoriale della parrocchia, tuttavia, è chiamata oggi a confrontarsi con una caratteristica peculiare del mondo contemporaneo, nel quale l’accresciuta mobilità e la cultura digitale hanno dilatato i confini dell’esistenza. Infatti, da una parte, la vita delle persone si identifica sempre meno con un contesto definito e immutabile, svolgendosi piuttosto in “un villaggio globale e plurale”; dall’altra, la cultura digitale ha modificato in maniera irreversibile la comprensione dello spazio, nonché il linguaggio e i comportamenti delle persone, specialmente quelle delle giovani generazioni.
Inoltre, è facile ipotizzare che il costante sviluppo della tecnologia modificherà ulteriormente il modo di pensare e la comprensione che l’uomo avrà di sé e della vita sociale. La rapidità dei cambiamenti, l’avvicendarsi dei modelli culturali, la facilità degli spostamenti e la velocità della comunicazione stanno trasformando la percezione dello spazio e del tempo.
9. La parrocchia, come comunità viva di credenti, è inserita in tale contesto, nel quale il legame con il territorio tende a essere sempre meno percepito, i luoghi di appartenenza divengono molteplici e le relazioni interpersonali rischiano di dissolversi nel mondo virtuale senza impegno né responsabilità verso il proprio contesto relazionale.
10. Si avverte oggi che tali cambiamenti culturali e il mutato rapporto con il territorio stanno promuovendo nella Chiesa, grazie alla presenza dello Spirito Santo, un nuovo discernimento comunitario, «che consiste nel vedere la realtà con gli occhi di Dio, nell’ottica dell’unità e della comunione»[11]. È dunque urgente coinvolgere l’intero Popolo di Dio nell’impegno di cogliere l’invito dello Spirito, per attuare processi di “ringiovanimento” del volto della Chiesa.
III. Il valore della parrocchia oggi
11. In virtù di tale discernimento, la parrocchia è chiamata a cogliere le istanze del tempo per adeguare il proprio servizio alle esigenze dei fedeli e dei mutamenti storici. Occorre un rinnovato dinamismo, che permetta di riscoprire la vocazione di ogni battezzato a essere discepolo di Gesù e missionario del Vangelo, alla luce dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e del Magistero successivo.
12. I Padri conciliari, infatti, scrivevano con lungimiranza: «La cura delle anime deve essere animata da spirito missionario»[12]. In continuità con tale insegnamento, San Giovanni Paolo II precisava: «La parrocchia va perfezionata e integrata in molte altre forme, ma essa rimane tuttora un organismo indispensabile di primaria importanza nelle strutture visibili della Chiesa», per «fare dell’evangelizzazione il perno di tutta l’azione pastorale, quale esigenza prioritaria, preminente e privilegiata»[13]. Benedetto XVI insegnava poi che «la parrocchia è un faro che irradia la luce della fede e viene incontro così ai desideri più profondi e veri del cuore dell’uomo, dando significato e speranza alla vita delle persone e delle famiglie»[14]. Infine, Papa Francesco ricorda che «attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione»[15].
13. Per promuovere la centralità della presenza missionaria della comunità cristiana nel mondo[16], è importante ripensare non solo a una nuova esperienza di parrocchia, ma anche, in essa, al ministero e alla missione dei sacerdoti, che, insieme con i fedeli laici, hanno il compito di essere “sale e luce del mondo” (cfr. Mt 5, 13-14), “lampada sul candelabro” (cfr. Mc 4, 21), mostrando il volto di una comunità evangelizzatrice, capace di un’adeguata lettura dei segni dei tempi, che genera una coerente testimonianza di vita evangelica.
14. A partire proprio da tale considerazione, in ascolto dello Spirito è necessario anche generare nuovi segni: non essendo più, come in passato, il luogo primario dell’aggregazione e della socialità, la parrocchia è chiamata a trovare altre modalità di vicinanza e di prossimità rispetto alle abituali attività. Tale compito non costituisce un peso da subire, ma una sfida da accogliere con entusiasmo.
15. I discepoli del Signore, seguendo il loro Maestro, alla scuola dei Santi e dei pastori, hanno imparato, talvolta attraverso esperienze sofferte, a saper aspettare i tempi e i modi di Dio, ad alimentare la certezza che Egli è sempre presente sino alla fine della storia, e che lo Spirito Santo – cuore che fa pulsare la vita della Chiesa – raduna i figli di Dio dispersi nel mondo. Per questo, la comunità cristiana non deve avere timore di avviare e accompagnare processi all’interno di un territorio in cui abitano culture diverse, nella fiduciosa certezza che per i discepoli di Cristo «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore»[17].
IV. La missione, criterio guida per il rinnovamento
16. Nelle trasformazioni in atto, nonostante il generoso impegno, la parrocchia talora non riesce a corrispondere adeguatamente alle tante aspettative dei fedeli, specialmente considerando le molteplici tipologie di comunità[18]. è vero che una caratteristica della parrocchia è il suo radicarsi là dove ognuno vive quotidianamente. Però, specialmente oggi, il territorio non è più solo uno spazio geografico delimitato, ma il contesto dove ognuno esprime la propria vita fatta di relazioni, di servizio reciproco e di tradizioni antiche. È in questo “territorio esistenziale” che si gioca tutta la sfida della Chiesa in mezzo alla comunità. Sembra superata quindi una pastorale che mantiene il campo d’azione esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia, quando spesso sono proprio i parrocchiani a non comprendere più questa modalità, che appare segnata dalla nostalgia del passato, più che ispirata dall’audacia per il futuro[19]. D’altra parte, è bene precisare che sul piano canonico il principio territoriale rimane pienamente vigente, quando richiesto dal diritto[20].
17. Inoltre, la mera ripetizione di attività senza incidenza nella vita delle persone concrete, rimane uno sterile tentativo di sopravvivenza, spesso accolto dall’indifferenza generale. Se non vive del dinamismo spirituale proprio dell’evangelizzazione, la parrocchia corre il rischio di divenire autoreferenziale e di sclerotizzarsi, proponendo esperienze ormai prive di sapore evangelico e di mordente missionario, magari destinate solo a piccoli gruppi.
18. Il rinnovamento dell’evangelizzazione richiede nuove attenzioni e proposte pastorali diversificate, perché la Parola di Dio e la vita sacramentale possano raggiungere tutti, in maniera coerente con lo stato di vita di ciascuno. Infatti, l’appartenenza ecclesiale oggi prescinde sempre più dai luoghi di nascita e di crescita dei membri e si orienta piuttosto verso una comunità di adozione[21], dove i fedeli fanno un’esperienza più ampia del Popolo di Dio, di fatto, di un corpo che si articola in tante membra, dove ognuna opera per il bene di tutto l’organismo (cfr. 1 Cor 12, 12-27).
19. Al di là dei luoghi e delle ragioni di appartenenza, la comunità parrocchiale è il contesto umano dove si attua l’opera evangelizzatrice della Chiesa, si celebrano i sacramenti e si vive la carità, in un dinamismo missionario che – oltre a essere elemento intrinseco dell’azione pastorale – diventa criterio di verifica della sua autenticità. Nell’ora presente, caratterizzata talvolta da situazioni di emarginazione e solitudine, la comunità parrocchiale è chiamata a essere segno vivo della vicinanza di Cristo attraverso una rete di relazioni fraterne, proiettate verso le nuove forme di povertà.
20. In ragione di quanto detto sin qui, occorre individuare prospettive che permettano di rinnovare le strutture parrocchiali “tradizionali” in chiave missionaria. È questo il cuore della desiderata conversione pastorale, che deve toccare l’annuncio della Parola di Dio, la vita sacramentale e la testimonianza della carità, ovvero gli ambiti essenziali nei quali la parrocchia cresce e si conforma al Mistero in cui crede.
21. Percorrendo gli Atti degli Apostoli, ci si rende conto del protagonismo della Parola di Dio, potenza interiore che opera la conversione dei cuori. Essa è il cibo che alimenta i discepoli del Signore e li fa testimoni del Vangelo nelle diverse condizioni di vita. La Scrittura contiene una forza profetica che la rende sempre viva. Occorre, quindi, che la parrocchia educhi alla lettura e alla meditazione della Parola di Dio attraverso proposte diversificate di annuncio[22], assumendo forme comunicative limpide e comprensibili, che raccontino il Signore Gesù secondo la testimonianza sempre nuova del kerigma[23].
22. La celebrazione del mistero eucaristico, poi, è «fonte e apice di tutta la vita cristiana»[24] e dunque momento sostanziale del costituirsi della comunità parrocchiale. In essa la Chiesa diventa consapevole del significato del suo stesso nome: convocazione del Popolo di Dio che loda, supplica, intercede e ringrazia. Celebrando l’Eucaristia, la comunità cristiana accoglie la presenza viva del Signore Crocifisso e Risorto, ricevendo l’annuncio di tutto il suo mistero di salvezza.
23. Da qui la Chiesa avverte la necessità di riscoprire l’Iniziazione Cristiana, che genera una vita nuova, perché inserita nel mistero della vita stessa di Dio. È un cammino infatti che non conosce interruzione, né è legato solo a celebrazioni o a eventi, perché non è determinato in primo luogo dal dovere di compiere un “rito di passaggio”, ma unicamente dalla prospettiva della permanente sequela di Cristo. In questo contesto, può essere utile impostare itinerari mistagogici che tocchino realmente l’esistenza[25]. Anche la catechesi dovrà presentarsi come un continuo annuncio del Mistero di Cristo, al fine di far crescere nel cuore del battezzato la statura di Cristo (cfr. Ef 4, 13), attraverso un incontro personale con il Signore della vita.
Come ha ricordato Papa Francesco, occorre «richiamare l’attenzione su due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità»[26]. Nel caso dello gnosticismo, si tratta di una fede astratta, solo intellettuale, fatta di conoscenze che restano lontane dalla vita, mentre il pelagianesimo induce l’uomo a contare unicamente sulle proprie forze, ignorando l’azione dello Spirito.
24. Nell’intreccio misterioso tra l’agire di Dio e quello dell’uomo, la proclamazione del Vangelo avviene attraverso uomini e donne che rendono credibile ciò che annunciano mediante la vita, in una rete di relazioni interpersonali che generano fiducia e speranza. Nel periodo attuale, segnato spesso dall’indifferenza, dalla chiusura dell’individuo in se stesso e dal rifiuto dell’altro, la riscoperta della fraternità è fondamentale, dal momento che l’evangelizzazione è strettamente legata alla qualità delle relazioni umane[27]. Così, la comunità cristiana fa propria la parola di Gesù che sprona a «prendere il largo» (Lc 5, 4), nella fiducia che l’invito del Maestro a gettare le reti garantisce da sé la certezza di una “pesca abbondante”[28].
25. La “cultura dell’incontro” è il contesto che promuove il dialogo, la solidarietà e l’apertura verso tutti, facendo emergere la centralità della persona. È necessario, pertanto, che la parrocchia sia “luogo” che favorisce lo stare insieme e la crescita di relazioni personali durevoli, che consentano a ciascuno di percepire il senso di appartenenza e dell’essere ben voluto.
26. La comunità parrocchiale è chiamata a sviluppare una vera e propria “arte della vicinanza”. Se essa mette radici profonde, la parrocchia diventa realmente il luogo dove viene superata la solitudine, che intacca la vita di tante persone, nonché un «santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario»[29].
V. “Comunità di comunità”: la parrocchia inclusiva, evangelizzatrice e attenta ai poveri
27. Il soggetto dell’azione missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa è sempre il Popolo di Dio nel suo insieme. Infatti, il Codice di Diritto Canonico mette in evidenza che la parrocchia non si identifica con un edificio o un insieme di strutture, bensì con una precisa comunità di fedeli, nella quale il parroco è il pastore proprio[30]. In proposito Papa Francesco ha ricordato che «la parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione», e ha affermato che essa «è comunità di comunità»[31].
28. Le diverse componenti in cui la parrocchia si articola sono chiamate alla comunione e all’unità. Nella misura in cui ognuno recepisce la propria complementarità, ponendola a servizio della comunità, allora, da una parte si può vedere realizzato a pieno il ministero del parroco e dei presbiteri che collaborano come pastori, dall’altra emerge la peculiarità dei vari carismi dei diaconi, dei consacrati e dei laici, perché ognuno si adoperi per la costruzione dell’unico corpo (cfr. 1 Cor 12, 12).
29. La parrocchia, pertanto, è una comunità convocata dallo Spirito Santo per annunciare la Parola di Dio e far rinascere al fonte battesimale nuovi figli; radunata dal suo pastore, celebra il memoriale della passione, morte e risurrezione del Signore, e testimonia la fede nella carità, vivendo in permanente stato di missione, perché a nessuno venga a mancare il messaggio salvifico, che dona la vita.
In proposito, Papa Francesco si è così espresso: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà a essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”. Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. […] Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione»[32].
30. Non può essere estraneo alla parrocchia lo “stile spirituale ed ecclesiale dei santuari” – veri e propri “avamposti missionari” – connotato dall’accoglienza, dalla vita di preghiera e dal silenzio che ristora lo spirito, nonché dalla celebrazione del sacramento della riconciliazione e dall’attenzione per i poveri. I pellegrinaggi che le comunità parrocchiali compiono ai vari santuari sono strumenti preziosi per crescere nella comunione fraterna e, al ritorno a casa, far diventare i propri luoghi di vita quotidiana maggiormente aperti e ospitali[33].
31. In tale prospettiva, si ha l’idea che il santuario possa racchiudere quell’insieme di caratteristiche e di servizi che, analogamente, anche una parrocchia deve avere, rappresentando per molti fedeli la meta desiderata della propria ricerca interiore e il luogo dove ci si incontra con il volto di Cristo misericordioso e con una Chiesa accogliente.
Nei santuari essi possono riscoprire “l’unzione dal Santo” (1 Gv 2,20), cioè la propria consacrazione battesimale. Da questi luoghi si impara a celebrare con fervore nella liturgia il mistero della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, la bellezza della missione evangelizzatrice di ogni battezzato, la chiamata a tradurre la carità nei luoghi in cui si vive[34].
32. “Santuario” aperto verso tutti, la parrocchia, chiamata anche a raggiungere ciascuno, senza eccezione, ricorda che i poveri e gli esclusi devono sempre avere nel cuore della Chiesa un posto privilegiato. Come ha affermato Benedetto XVI: «I poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo»[35]. A sua volta Papa Francesco ha scritto che «La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro»[36].
33. Molto spesso la comunità parrocchiale è il primo luogo di incontro umano e personale dei poveri con il volto della Chiesa. In particolare, saranno i sacerdoti, i diaconi e i consacrati a muoversi a compassione per la “carne ferita”[37] dei fratelli, a visitarli nella malattia, a sostenere persone e famiglie senza lavoro, ad aprire la porta a quanti sono nel bisogno. Con lo sguardo rivolto agli ultimi, la comunità parrocchiale evangelizza e si lascia evangelizzare dai poveri, ritrovando in questo modo l’impegno sociale dell’annuncio in tutti i suoi differenti ambiti[38], senza scordare la “suprema regola” della carità in base alla quale saremo giudicati[39].
VI. Dalla conversione delle persone a quella delle strutture
34. In tale processo di rinnovamento e di ristrutturazione, la parrocchia deve evitare il rischio di cadere in una eccessiva e burocratica organizzazione di eventi e in un’offerta di servizi, che non esprimono la dinamica dell’evangelizzazione, bensì il criterio dell’autopreservazione[40].
Citando San Paolo VI, Papa Francesco, con la sua abituale parresia, ha fatto presente che «la Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, meditare sul mistero che le è proprio. (…) Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica. Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza ‘fedeltà della Chiesa alla propria vocazione’, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo»[41].
35. La conversione delle strutture, che la parrocchia deve proporsi, richiede “a monte” un cambiamento di mentalità e un rinnovamento interiore, soprattutto di quanti sono chiamati alla responsabilità della guida pastorale. Per essere fedeli al mandato di Cristo, i pastori, e in modo particolare i parroci, «principali collaboratori del Vescovo»[42], devono avvertire con urgenza la necessità di una riforma missionaria della pastorale.
36. Tenendo presente quanto la comunità cristiana sia legata alla propria storia e ai propri affetti, ogni pastore non deve dimenticare che la fede del Popolo di Dio si rapporta alla memoria familiare e a quella comunitaria. Molto spesso, il luogo sacro evoca momenti di vita significativi delle generazioni passate, volti ed eventi che hanno segnato itinerari personali e familiari. Onde evitare traumi e ferite, è importante che i processi di ristrutturazione delle comunità parrocchiali e, talvolta, diocesane siano portati a compimento con flessibilità e gradualità.
Papa Francesco ha sottolineato in riferimento alla riforma della Curia Romana, che la gradualità «è il frutto dell’indispensabile discernimento che implica processo storico, scansione di tempi e di tappe, verifica, correzioni, sperimentazione, approvazioni “ad experimentum”. Dunque, in questi casi non si tratta di indecisione ma della flessibilità necessaria per poter raggiungere una vera riforma»[43]. Si tratta di fare attenzione a non “forzare i tempi”, volendo condurre a termine le riforme troppo frettolosamente e con criteri generici, che obbediscono a logiche elaborate “a tavolino”, dimenticando le persone concrete che abitano il territorio. Infatti, ogni progetto va situato nella vita reale di una comunità e innestato in essa senza traumi, con una necessaria fase di consultazione previa e una di progressiva attuazione, e di verifica.
37. Tale rinnovamento, naturalmente, non riguarda unicamente il parroco, né può essere imposto dall’alto escludendo il Popolo di Dio. La conversione pastorale delle strutture implica la consapevolezza che «il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo; per tanto, all’ora di riflettere, pensare, valutare, discernere dobbiamo essere molto attenti a questa unzione. Ogni volta che, come Chiesa, come pastori, come consacrati abbiamo dimenticato questa certezza sbagliamo la strada. Ogni volta che vogliamo soppiantare, far tacere, annientare, ignorare o ridurre a piccole élite il Popolo di Dio nella sua totalità e nelle sue differenze, costruiamo comunità, piani pastorali, accentuazioni teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza storia, senza volto, senza memoria, senza corpo, di fatto, senza vita. Nel momento in cui ci sradichiamo dalla vita del Popolo di Dio, precipitiamo nella desolazione e pervertiamo la natura della Chiesa»[44].
In tal senso, il clero non opera da solo la trasformazione sollecitata dallo Spirito Santo, ma è coinvolto nella conversione che riguarda tutte le componenti del Popolo di Dio[45]. Perciò, occorre «cercare con consapevolezza e lucidità spazi di comunione e di partecipazione, perché l’Unzione dell’intero Popolo di Dio trovi le sue mediazioni concrete per manifestarsi»[46].
38. Di conseguenza, è evidente quanto sia opportuno il superamento tanto di una concezione autoreferenziale della parrocchia, quanto di una “clericalizzazione della pastorale”. Prendere sul serio il fatto che il Popolo di Dio «ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio»[47], spinge a promuovere pratiche e modelli tramite i quali ogni battezzato, in virtù del dono dello Spirito Santo e dei carismi ricevuti, si rende protagonista attivo dell’evangelizzazione, nello stile e nelle modalità di una comunione organica, sia con le altre comunità parrocchiali che con la pastorale d’insieme della diocesi. Infatti, è la comunità intera il soggetto responsabile della missione, dal momento che la Chiesa non si identifica con la sola gerarchia, ma si costituisce come Popolo di Dio.
39. Sarà compito dei pastori mantenere viva tale dinamica, perché ogni battezzato si scopra protagonista attivo dell’evangelizzazione. La comunità presbiterale, sempre in cammino di formazione permanente[48], dovrà esercitare con sapienza l’arte del discernimento che permette alla vita parrocchiale di crescere e di maturare, nel riconoscimento delle diverse vocazioni e ministeri. Il presbitero, quindi, come membro e servitore del Popolo di Dio che gli è stato affidato, non può sostituirsi a esso. La comunità parrocchiale è abilitata a proporre forme di ministerialità, di annuncio della fede e di testimonianza della carità.
40. La centralità dello Spirito Santo – dono gratuito del Padre e del Figlio alla Chiesa – porta a vivere profondamente la dimensione della gratuità, secondo l’insegnamento di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8). Egli ha insegnato ai discepoli un atteggiamento di servizio generoso, a essere ciascuno un dono per gli altri (cfr. Gv 13, 14-15), con una attenzione preferenziale verso i poveri. Da qui deriva, tra l’altro, l’esigenza di non “mercanteggiare” la vita sacramentale e di non dare l’impressione che la celebrazione dei sacramenti – soprattutto la Santissima Eucaristia – e le altre azioni ministeriali possano essere soggette a tariffari.
Il pastore, che serve il gregge con generosa gratuità, è tenuto, d’altra parte, a formare i fedeli, affinché ogni membro della comunità si senta responsabilmente e direttamente coinvolto nel sovvenire ai bisogni della Chiesa, attraverso le diverse forme di aiuto e di solidarietà, di cui la parrocchia necessita per svolgere, con libertà ed efficacia, il proprio servizio pastorale.
41. La missione a cui è chiamata la parrocchia, in quanto centro propulsore dell’evangelizzazione, riguarda dunque tutto il Popolo di Dio nelle sue diverse componenti: presbiteri, diaconi, consacrati e fedeli laici, ciascuno secondo il proprio carisma e secondo le responsabilità che gli corrispondono.
VII. La Parrocchia e le altre ripartizioni interne alla diocesi
42. La conversione pastorale della comunità parrocchiale in senso missionario, quindi, prende forma e si esprime in un processo graduale di rinnovamento delle strutture e, di conseguenza, in modalità diversificate di affidamento della cura pastorale e di partecipazione all’esercizio di essa, che coinvolgono tutte le componenti del Popolo di Dio.
43. Nel linguaggio corrente, mutuato dai documenti del Magistero, in relazione alla ripartizione interna del territorio diocesano[49], da alcuni decenni si sono aggiunte alla parrocchia e ai vicariati foranei, già previsti dal vigente Codice di Diritto Canonico[50], espressioni quali “unità pastorale” e “zona pastorale”. Tali denominazioni definiscono di fatto forme di organizzazione pastorale della diocesi, che esprimono un nuovo rapporto tra i fedeli e il territorio.
44. In tema di “unità” o “zone pastorali”, nessuno ovviamente pensi che la soluzione delle molteplici problematiche dell’ora presente si dia attraverso una semplice nuova denominazione per realtà già esistenti. Al cuore di tale processo di rinnovamento, evitando di subire il cambiamento e impegnandosi piuttosto a promuoverlo e a orientarlo, si trova invece l’esigenza di individuare strutture attraverso cui ravvivare in tutte le componenti della comunità cristiana la comune vocazione all’evangelizzazione, in vista di una più efficace cura pastorale del Popolo di Dio, in cui il “fattore chiave” non può che essere la prossimità.
45. In tale prospettiva, la normativa canonica mette in evidenza la necessità di individuare all’interno di ogni diocesi parti territoriali distinte[51], con la possibilità che esse siano successivamente raggruppate in realtà intermedie tra la diocesi stessa e la singola parrocchia. In conseguenza di ciò, quindi, tenuto conto delle dimensioni della diocesi e della sua concreta realtà pastorale, si possono individuare varie tipologie di raggruppamenti di parrocchie[52].
Al cuore degli stessi vive e opera la dimensione comunionale della Chiesa, con una particolare attenzione al territorio concreto, per cui nella loro erezione si deve tenere conto il più possibile dell’omogeneità della popolazione e delle sue consuetudini, nonché delle caratteristiche comuni del territorio, per facilitare la relazione di vicinanza tra i parroci e gli altri operatori pastorali[53].
VII.a. Come procedere all’erezione di un raggruppamento di parrocchie
46. Innanzitutto, prima di procedere all’erezione di un raggruppamento di parrocchie, il Vescovo deve necessariamente consultare in merito il Consiglio presbiterale[54], nel rispetto della normativa canonica e in nome della doverosa corresponsabilità ecclesiale, condivisa a diverso titolo tra il Vescovo e i membri di tale Consiglio.
47. Innanzitutto, i raggruppamenti di più parrocchie possono avvenire in semplice forma federativa, in modo che le parrocchie associate rimangano distinte nella loro identità.
Conformemente all’ordinamento canonico, comunque, nello stabilire ogni genere di raggruppamenti di parrocchie vicine, inoltre, va da sé che debbano essere rispettati gli elementi essenziali stabiliti dal diritto universale per la persona giuridica della parrocchia, i quali non sono dispensabili dal Vescovo[55]. Egli dovrà quindi emettere per ogni parrocchia che intenda eventualmente sopprimere un decreto specifico, corredato dalle motivazioni pertinenti[56].
48. Alla luce di quanto sopra esposto, dunque, il raggruppamento, nonché l’erezione o soppressione di parrocchie, va realizzato dal Vescovo diocesano nel rispetto della normativa prevista dal Diritto Canonico, cioè mediante incorporazione, per cui una parrocchia confluisce in un’altra, venendo da essa assorbita, e perdendo la sua originaria individualità e personalità giuridica; oppure, ancora, mediante vera e propria fusione, che dà vita a una nuova e unica parrocchia, con la conseguente estinzione delle parrocchie preesistenti e della loro personalità giuridica; o, infine, mediante divisione di una comunità parrocchiale in più parrocchie autonome, che vengono create ex novo[57].
Inoltre, la soppressione di parrocchie per unione estintiva è legittima per cause direttamente riguardanti una determinata parrocchia. Non sono invece motivi adeguati, ad esempio, la sola scarsità del clero diocesano, la situazione finanziaria generale della diocesi, o altre condizioni della comunità presumibilmente reversibili a breve scadenza (ad esempio, la consistenza numerica, la non autosufficienza economica, la modifica dell’assetto urbanistico del territorio). Come condizione di legittimità di questo genere di provvedimenti occorre che i motivi a cui ci si riferisce siano direttamente e organicamente connessi con la comunità parrocchiale interessata e non con considerazioni generali, teoriche e “di principio”.
49. A proposito dell’erezione e della soppressione di parrocchie, giova ricordare che ogni decisione deve essere adottata mediante formale decreto, redatto in forma scritta[58]. Di conseguenza, è da considerare non conforme alla normativa canonica emanare un unico provvedimento, volto a produrre una riorganizzazione di carattere generale riguardante l’intera diocesi, una parte di essa o un insieme di parrocchie, attuata tramite un unico atto normativo, decreto generale o legge particolare.
50. In modo particolare, nei casi di soppressione di parrocchie, il decreto deve indicare chiaramente, con riferimento alla situazione concreta, quali siano le ragioni che hanno indotto il Vescovo ad adottare la decisione. Esse dunque dovranno essere indicate specificamente, non potendo bastare una generica allusione al “bene delle anime”.
Nell’atto con cui si sopprime una parrocchia, infine, il Vescovo dovrà provvedere anche alla devoluzione dei suoi beni nel rispetto delle relative norme canoniche[59]; a meno che non vi siano gravi ragioni contrarie, sentito il Consiglio Presbiterale[60], occorrerà garantire che la chiesa della parrocchia soppressa continui a essere aperta per i fedeli.
51. Collegata al tema del raggruppamento di parrocchie e della eventuale soppressione di esse, è la necessità che a volte si verifica di ridurre una chiesa a uso profano non indecoroso[61], decisione che compete al Vescovo diocesano, dopo aver obbligatoriamente consultato il Consiglio Presbiterale[62].
Ordinariamente, anche in questo caso, non sono cause legittime per decretare tale riduzione la diminuzione del clero diocesano, il decremento demografico e la grave crisi finanziaria della diocesi. Al contrario, se l’edificio si trova in condizioni tali da non poter in alcun modo essere utilizzato per il culto divino e non ci sia possibilità di ripararlo, si potrà procedere a norma del diritto a ridurlo a uso profano non indecoroso.
52. Innanzitutto, occorre ricordare che, «per favorire la cura pastorale mediante un’azione comune, il Vescovo diocesano può riunire più parrocchie vicine in peculiari raggruppamenti, quali sono i vicariati foranei»[63]; essi assumono nei vari luoghi denominazioni quali quelle di “decanati” o “arcipreture”, o anche di “zone pastorali” o “prefetture”[64].
53. Il vicario foraneo non deve necessariamente essere un parroco di una parrocchia determinata[65] e, perché si realizzi la finalità per cui il vicariato è eretto, tra le sue responsabilità, primaria è quella di «promuovere e coordinare l’attività pastorale comune nell’ambito del Vicariato»[66], in modo che non rimanga un’istituzione puramente formale. Inoltre, il vicario foraneo «è tenuto all’obbligo di visitare le parrocchie del suo distretto secondo quanto avrà determinato il Vescovo diocesano»[67]. Perché possa adempiere meglio la sua funzione e per favorire ancora di più l’attività comune tra le parrocchie, il Vescovo diocesano potrà conferire al vicario foraneo altre facoltà ritenute opportune in base al contesto concreto.
54. Ispirandosi a finalità analoghe, quando le circostanze lo richiedono, in ragione dell’estensione territoriale del vicariato foraneo o del gran numero di fedeli, e sia perciò necessario favorire meglio la collaborazione organica tra parrocchie limitrofe, udito il Consiglio presbiterale[68], il Vescovo può anche decretare il raggruppamento stabile e istituzionale di varie parrocchie all’interno del vicariato foraneo[69], tenendo conto di alcuni criteri concreti.
55. Innanzitutto, è opportuno che i raggruppamenti (denominati “unità pastorali”[70]) siano delimitati in modo quanto più possibile omogeneo, anche dal punto di vista sociologico, perché possa essere realizzata una vera pastorale d’insieme o integrata[71], in prospettiva missionaria.
56. Inoltre, ogni parrocchia di tale raggruppamento deve essere affidata a un parroco o anche a un gruppo di sacerdoti in solidum, che si prenda cura di tutte le comunità parrocchiali[72]. In alternativa, ove stimato conveniente dal Vescovo, il raggruppamento potrà anche essere composto da più parrocchie, affidate allo stesso parroco[73].
57. In ogni caso, anche in considerazione dell’attenzione dovuta ai sacerdoti, che hanno svolto spesso il ministero con merito e con il riconoscimento delle comunità, nonché per il bene dei fedeli stessi, legati da vincoli di affetto e gratitudine ai loro pastori, si richiede che, al momento di costituire un determinato raggruppamento, il Vescovo diocesano non stabilisca con lo stesso decreto che, in più parrocchie unite e affidate a un solo parroco[74], altri eventuali parroci presenti, ancora in carica[75], vengano trasferiti automaticamente all’ufficio di vicari parrocchiali, o rimossi di fatto dal loro incarico.
58. In questi casi, a meno che non si tratti di un affidamento in solidum, compete al Vescovo diocesano, caso per caso, stabilire le funzioni del sacerdote moderatore di tali raggruppamenti di parrocchie, unitamente ai suoi rapporti con il vicario della forania[76], all’interno della quale è costituita l’unità pastorale.
59. Una volta creato secondo il diritto il raggruppamento di parrocchie – vicariato foraneo o “unità pastorale” – il Vescovo determinerà, secondo l’opportunità, se in esso le parrocchie debbano essere ciascuna dotata del Consiglio Pastorale Parrocchiale[77], oppure se sia meglio che tale compito sia affidato a un Consiglio pastorale unitario per tutte le comunità interessate. In ogni caso, le singole parrocchie integranti il raggruppamento, poiché conservano personalità e capacità giuridica, devono mantenere il proprio Consiglio per gli Affari Economici[78].
60. Al fine di valorizzare un’azione evangelizzatrice d’insieme e una cura pastorale più efficace, è opportuno che si costituiscano servizi pastorali comuni per determinati ambiti (ad esempio, catechesi, carità, pastorale giovanile o familiare) per le parrocchie del raggruppamento, con la partecipazione di tutte le componenti del Popolo di Dio, chierici, consacrati e fedeli laici.
61. Se più “unità pastorali” possono costituire un vicariato foraneo, allo stesso modo, soprattutto nelle diocesi territorialmente più estese, diversi vicariati foranei, sentito il Consiglio presbiterale[79], possono essere riuniti dal Vescovo in “distretti” o “zone pastorali”[80], sotto la guida di un vicario episcopale[81] avente potestà esecutiva ordinaria per l’amministrazione pastorale della zona a nome del Vescovo diocesano, sotto la sua autorità e in comunione con lui, oltre alle speciali facoltà che questi voglia attribuirgli caso per caso.
VIII. Forme ordinarie e straordinarie di affidamento della cura pastorale della comunità parrocchiale
62. In primo luogo, il parroco e gli altri presbiteri, in comunione con il Vescovo, sono un riferimento fondamentale per la comunità parrocchiale, per il compito di pastori che a loro corrisponde[82]. Il parroco e il presbiterio, coltivando la vita comune e la fraternità sacerdotale, celebrano la vita sacramentale per la comunità e insieme a essa, e sono chiamati a organizzare la parrocchia in modo tale da essere segno efficace di comunione[83].
63. In relazione alla presenza e alla missione dei presbiteri nella comunità parrocchiale, merita una particolare menzione la vita comune[84]; essa è raccomandata dal can. 280, anche se non si configura come un obbligo per il clero secolare. Al riguardo, va ricordato il fondamentale valore dello spirito di comunione, della preghiera e dell’azione pastorale comune da parte dei chierici[85], in vista di una effettiva testimonianza di fraternità sacramentale[86] e di una più efficace azione evangelizzatrice.
64. Quando il presbiterio sperimenta la vita comunitaria, allora l’identità sacerdotale si rafforza, le preoccupazioni materiali diminuiscono e la tentazione dell’individualismo cede il passo alla profondità della relazione personale. La preghiera comune, la riflessione condivisa e lo studio, che non devono mai mancare nella vita sacerdotale, possono essere di grande sostegno nella formazione di una spiritualità presbiterale incarnata nel quotidiano.
In ogni caso, sarà conveniente che, secondo il suo discernimento e nel limite del possibile, il Vescovo tenga conto dell’affinità umana e spirituale tra i sacerdoti, ai quali intende affidare una parrocchia o un raggruppamento di parrocchie, invitandoli a una generosa disponibilità per la nuova missione pastorale e a qualche forma di condivisione di vita con i confratelli[87].
65. In alcuni casi, soprattutto dove non esiste tradizione, o consuetudine di casa canonica, o quando essa non è per qualche ragione disponibile come abitazione del sacerdote, può accadere che egli ritorni a vivere presso la famiglia di origine, primo luogo di formazione umana e di scoperta vocazionale[88].
Tale sistemazione, per un verso si rivela un apporto positivo per la vita quotidiana del prete, nel senso di garantirgli un ambiente domestico sereno e stabile, soprattutto quando siano ancora presenti i genitori. D’altra parte, si dovrà evitare che tali relazioni familiari siano vissute dal sacerdote con dipendenza interiore e minore disponibilità per un ministero a tempo pieno, o come alternativa escludente – piuttosto che come complemento – al rapporto con la famiglia presbiterale e la comunità dei fedeli laici.
66. L’ufficio di parroco comporta la piena cura delle anime[89] e, di conseguenza, perché un fedele sia validamente nominato parroco, occorre che abbia ricevuto l’Ordine del presbiterato[90], esclusa ogni possibilità di conferire a chi ne fosse privo tale ufficio o le relative funzioni, anche nei casi di carenza di sacerdoti. Proprio per il rapporto di conoscenza e vicinanza che si richiede tra un pastore e la comunità, l’ufficio di parroco non può essere affidato a una persona giuridica[91]. In modo particolare – a parte quanto previsto dal can. 517, §§ 1-2 – l’ufficio di parroco non può essere affidato a un gruppo di persone, composto da chierici e laici. Di conseguenza, sono da evitare denominazioni come, “team guida”, “équipe guida”, o altre simili, che sembrino esprimere un governo collegiale della parrocchia.
67. In conseguenza del suo essere il «pastore proprio della parrocchia affidatagli»[92], al parroco spetta ipso iure la rappresentanza giuridica della parrocchia[93]. Egli è l’amministratore responsabile dei beni parrocchiali, che sono “beni ecclesiastici” e sono pertanto sottoposti alle relative norme canoniche[94].
68. Come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II, «i parroci nella loro parrocchia devono poter godere di quella stabilità nell’ufficio che il bene delle anime esige»[95]. Come principio generale, si richiede quindi che il parroco sia «nominato a tempo indeterminato»[96].
Il Vescovo diocesano, tuttavia, può nominare parroci a tempo determinato, se così è stato stabilito per decreto dalla Conferenza Episcopale. In ragione della necessità che il parroco possa stabilire un effettivo ed efficace legame con la comunità affidatagli, è conveniente che le Conferenze Episcopali non stabiliscano un tempo troppo breve, inferiore ai 5 anni, per la nomina a tempo determinato.
69. In ogni caso, i parroci, anche se nominati a “tempo indeterminato”, o prima della scadenza del “tempo determinato”, devono essere disponibili per essere eventualmente trasferiti a un’altra parrocchia o a un altro ufficio, «se il bene delle anime oppure la necessità o l’utilità della Chiesa lo richiedono»[97]. Giova infatti ricordare che il parroco è al servizio della parrocchia, e non il contrario.
70. Ordinariamente, ove possibile, è bene che il parroco abbia la cura pastorale di una sola parrocchia, ma «tuttavia per la scarsità di sacerdoti o per altre circostanze, può essere affidata al medesimo parroco la cura di più parrocchie vicine»[98]. Ad esempio, tra le “altre circostanze” possono essere annoverate l’esiguità del territorio o della popolazione, nonché la contiguità tra le parrocchie interessate. Il Vescovo diocesano valuti attentamente che, se allo stesso parroco sono affidate più parrocchie, questi possa esercitare pienamente e concretamente come vero pastore l’ufficio di parroco di tutte e di ciascuna di esse[99].
71. Una volta nominato, il parroco rimane nel pieno esercizio delle funzioni affidategli, con tutti i diritti e le responsabilità, fino a quando non abbia cessato legittimamente il suo ufficio pastorale[100]. Per la sua rimozione o per il trasferimento prima della scadenza del mandato devono essere osservate le relative procedure canoniche, di cui la Chiesa si serve per il discernimento di ciò che conviene nel caso concreto[101].
72. Quando lo richiede il bene dei fedeli, anche se non ci sono altre cause di cessazione, il parroco che ha raggiunto i 75 anni di età, accolga l’invito che il Vescovo diocesano può rivolgergli a rinunciare alla parrocchia[102]. La presentazione della rinuncia, raggiunti i 75 anni di età[103], da considerarsi un dovere morale, se non canonico, non fa sì che il parroco decada automaticamente dal suo ufficio. La cessazione da esso avviene solo quando il Vescovo diocesano abbia comunicato al parroco interessato, per iscritto, l’accettazione della sua rinuncia[104]. D’altra parte, il Vescovo tenga in benevola considerazione la rinuncia presentata da un parroco, anche solo in ragione del compimento dei 75 anni.
73. In ogni caso, al fine di evitare una concezione funzionalistica del ministero, prima di accettare la rinuncia, il Vescovo diocesano pondererà prudentemente tutte le circostanze della persona e del luogo, come ad esempio la presenza di motivi di salute o disciplinari, la scarsità di sacerdoti, il bene della comunità parrocchiale, e altri elementi di tal genere, e accetterà la rinuncia in presenza di una causa giusta e proporzionata[105].
74. Diversamente, se le condizioni personali del sacerdote lo permettono e l’opportunità pastorale lo consiglia, il Vescovo consideri la possibilità di lasciarlo nell’ufficio di parroco, magari affiancandogli un aiuto e preparando la successione. Inoltre, «secondo i casi, il Vescovo può affidare una parrocchia più piccola e meno impegnativa ad un parroco che ha rinunciato»[106], o comunque gli assegni un altro incarico pastorale adeguato alle sue concrete possibilità, invitando il sacerdote a comprendere, se ce ne fosse bisogno, che in nessun caso dovrà sentirsi “retrocesso” o “punito” per un trasferimento di tal genere.
VIII.b. Amministratore parrocchiale
75. Qualora non sia possibile procedere nell’immediato con la nomina del parroco, la designazione di amministratori parrocchiali[107] deve avvenire solo in conformità con quanto stabilito dalla normativa canonica[108].
Infatti, si tratta di un ufficio essenzialmente transitorio e viene esercitato nell’attesa della nomina del nuovo parroco. Per questo motivo è illegittimo che il Vescovo diocesano nomini un amministratore parrocchiale e lo lasci in tale incarico per un lungo periodo, superiore a un anno, o, addirittura, in modo stabile, evitando di provvedere alla nomina del parroco.
Secondo quanto l’esperienza attesta, tale soluzione viene adottata sovente per eludere le condizioni del diritto relative al principio della stabilità del parroco, del quale costituisce una violazione, con danno della missione del presbitero interessato, nonché della comunità stessa, che, in condizioni di incertezza circa la presenza del pastore, non potrà programmare piani di evangelizzazione di ampio respiro e si dovrà limitare a una pastorale di conservazione.
76. Come ulteriore possibilità, «quando le circostanze lo richiedano, la cura pastorale di una parrocchia, o di più parrocchie contemporaneamente, può essere affidata “in solidum” a più sacerdoti»[109]. Tale soluzione può essere adottata quando, a discrezione del Vescovo, lo richiedano le circostanze concrete, in modo particolare per il bene delle comunità interessate, tramite una azione pastorale condivisa e più efficace, nonché per promuovere una spiritualità di comunione tra i presbiteri[110].
In tali casi, il gruppo di presbiteri, in comunione con le altre componenti delle comunità parrocchiali interessate, agisce con deliberazione comune, essendo il Moderatore nei confronti degli altri sacerdoti, parroci a tutti gli effetti, un primus inter pares.
77. Si raccomanda vivamente che ogni comunità di sacerdoti, ai quali è affidata in solidum la cura pastorale di una o più parrocchie, elabori un regolamento interno perché ciascun presbitero possa meglio adempiere i compiti e le funzioni che gli competono[111].
Come responsabilità propria, il Moderatore coordina il lavoro comune della parrocchia o delle parrocchie affidate al gruppo, assume la rappresentanza giuridica di esse[112], coordina l’esercizio della facoltà di assistere alle nozze e di concedere dispense che spetta ai parroci[113] e risponde davanti al Vescovo di tutta l’attività del gruppo[114].
78. Come arricchimento, all’interno delle possibilità sopra prospettate, può trovare posto la possibilità che un sacerdote venga nominato vicario parrocchiale e incaricato di uno specifico settore della pastorale (giovani, anziani, malati, associazioni, confraternite, formazione, catechesi, etc.), “trasversale” a diverse parrocchie, oppure per adempiere a tutto il ministero, o a una parte precisa di questo, in una di esse[115].
Nel caso dell’incarico conferito a un vicario parrocchiale in più parrocchie, affidate a diversi parroci, sarà conveniente esplicitare e descrivere nel Decreto di nomina, i compiti che gli sono affidati in relazione a ciascuna comunità parrocchiale, nonché il tipo di rapporto da intrattenere con i parroci in relazione alla residenza, al sostentamento e alla celebrazione della Santa Messa.
79. I diaconi sono ministri ordinati, incardinati in una diocesi o nelle altre realtà ecclesiali che ne abbiano la facoltà[116]; sono collaboratori del Vescovo e dei presbiteri nell’unica missione evangelizzatrice con il compito specifico, in virtù del sacramento ricevuto, di «servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità»[117].
80. A salvaguardia dell’identità dei diaconi, in vista della promozione del loro ministero, Papa Francesco ha dapprima messo in guardia contro alcuni rischi relativi alla comprensione della natura del diaconato: «Dobbiamo stare attenti a non vedere i diaconi come mezzi preti e mezzi laici. […] E nemmeno va bene l’immagine del diacono come una specie di intermediario tra i fedeli e i pastori. Né a metà strada fra i preti e i laici, né a metà strada fra i pastori e i fedeli. E ci sono due tentazioni. C’è il pericolo del clericalismo: il diacono che è troppo clericale. […] E l’altra tentazione, il funzionalismo: è un aiuto che ha il prete per questo o per quello»[118].
Proseguendo il medesimo discorso, il Santo Padre ha poi offerto alcune precisazioni in merito al ruolo specifico dei diaconi all’interno della comunità ecclesiale: «Il diaconato è una vocazione specifica, una vocazione familiare cherichiama il servizio. […]Questa parola è la chiave per capire il vostro carisma. Il servizio come uno dei doni caratteristici del popolo di Dio. Il diacono è – per così dire – il custode del servizio nella Chiesa. Ogni parola dev’essere ben misurata. Voi siete i custodi del servizio nella Chiesa: il servizio alla Parola, il servizio all’Altare, il servizio ai Poveri»[119].
81. La dottrina sul diaconato ha conosciuto lungo i secoli un’importante evoluzione. La sua ripresa nel Concilio Ecumenico Vaticano II coincide anche con una chiarificazione dottrinale e con un ampliamento dell’azione ministeriale di riferimento, che non si limita a “confinare” il diaconato nel solo ambito del servizio caritativo o a riservarlo – secondo quanto stabilito dal Concilio di Trento – ai soli transeunti e quasi unicamente per il servizio liturgico. Piuttosto, il Concilio Vaticano II specifica che si tratta di un grado del sacramento dell’Ordine e, perciò, essi «sostenuti dalla grazia sacramentale, nella “diaconia” della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio»[120].
La ricezione post-conciliare riprende quanto stabilito da Lumen gentium e definisce sempre meglio l’ufficio dei diaconi come partecipazione, seppur in un grado diverso, del sacramento dell’Ordine. Nell’Udienza concessa ai partecipanti al Congresso Internazionale sul Diaconato, Paolo VI volle ribadire, infatti, che il diacono serve le comunità cristiane «sia nell’annuncio della Parola di Dio che nel ministero dei sacramenti e nell’esercizio della carità»[121]. D’altra parte, benché nel Libro degli Atti (At 6,1-6) sembrerebbe che i sette uomini scelti siano destinati solo al servizio delle mense, in realtà, lo stesso Libro biblico racconta come Stefano e Filippo svolgano a pieno titolo la “diaconia della Parola”. Dunque, come collaboratori dei Dodici e di Paolo, essi esercitano il loro ministero in due ambiti: l’evangelizzazione e la carità.
Dunque, sono molti gli incarichi ecclesiali che possono essere affidati a un diacono, ossia tutti quelli che non comportano la piena cura delle anime[122]. Il Codice di Diritto Canonico, tuttavia, determina quali uffici sono riservati al presbitero e quali possono essere affidati anche ai fedeli laici, mentre non compare l’indicazione di qualche particolare ufficio in cui il ministero diaconale possa esprimere la sua specificità.
82. In ogni caso, la storia del diaconato ricorda che esso è stato istituito nell’ambito di una visione ministeriale di Chiesa e, perciò, come ministero ordinato al servizio della Parola e della carità; quest’ultimo ambito comprende anche l’amministrazione dei beni. Tale duplice missione del diacono, poi, si esprime nell’ambito liturgico, nel quale egli è chiamato a proclamare il Vangelo e a prestare servizio alla mensa eucaristica. Proprio questi riferimenti potrebbero giovare a individuare compiti specifici per il diacono, valorizzando gli aspetti propri di tale vocazione in vista della promozione del ministero diaconale.
83. All’interno della comunità parrocchiale, in numerosi casi, sono presenti persone appartenenti alla vita consacrata. Questa, «infatti, non è una realtà esterna o indipendente dalla vita della Chiesa locale, ma costituisce un modo peculiare, segnato dal radicalismo evangelico, di essere presente al suo interno, con i suoi doni specifici»[123]. Inoltre, integrata nella comunità insieme ai chierici e ai laici, la vita consacrata «si colloca nella dimensione carismatica della Chiesa. […]. La spiritualità degli Istituti di vita consacrata può diventare, sia per il fedele laico che per il presbitero, una significativa risorsa per vivere la propria vocazione»[124].
84. Il contributo che i consacrati possono portare alla missione evangelizzatrice della comunità parrocchiale deriva in primo luogo dal loro “essere”, cioè dalla testimonianza di una radicale sequela di Cristo mediante la professione dei consigli evangelici[125], e solo secondariamente anche dal loro “fare”, cioè dalle opere compiute conformemente al carisma di ogni istituto (ad esempio, catechesi, carità, formazione, pastorale giovanile, cura dei malati)[126].
85. La comunità parrocchiale si compone in special modo di fedeli laici[127], i quali, in forza del battesimo e degli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana, e in molti anche del matrimonio[128], partecipano dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, dal momento che «la vocazione e la missione propria dei fedeli laici è la trasformazione delle varie realtà terrene affinché ogni attività umana sia trasformata dal Vangelo»[129].
In modo particolare, i fedeli laici, avendo come proprio e specifico il carattere secolare, ovvero «cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»[130], «possono anche sentirsi chiamati o essere chiamati a collaborare con i loro pastori nel servizio della comunità ecclesiale, per la crescita e la vitalità della medesima, esercitando ministeri diversissimi, secondo la grazia e i carismi che il Signore vorrà loro dispensare»[131].
86. A tutti i fedeli laici si richiede oggi un generoso impegno al servizio della missione evangelizzatrice, innanzitutto con la generale testimonianza di una vita quotidiana conforme al Vangelo nei consueti ambienti di vita e in ogni livello di responsabilità, poi in particolare con l’assunzione di impegni loro corrispondenti al servizio della comunità parrocchiale[132].
VIII.h. Altre forme di affidamento della cura pastorale
87. Esiste poi una ulteriore modalità per il Vescovo – come illustra il can. 517, § 2 – di provvedere alla cura pastorale di una comunità anche qualora, per la scarsità di sacerdoti, non sia possibile nominare un parroco né un amministratore parrocchiale, che possa assumerla a tempo pieno. In tali circostanze pastoralmente problematiche, per sostenere la vita cristiana e far proseguire la missione evangelizzatrice della comunità, il Vescovo diocesano può affidare una partecipazione all’esercizio della cura pastorale di una parrocchia a un diacono, a un consacrato o un laico, o anche a un insieme di persone (ad esempio, un istituto religioso, una associazione)[133].
88. Coloro ai quali verrà in tal modo affidata la partecipazione nell’esercizio della cura pastorale della comunità, saranno coordinati e guidati da un presbitero con legittime facoltà, costituito “Moderatore della cura pastorale”, al quale esclusivamente competono la potestà e le funzioni del parroco, pur non avendone l’ufficio, con i conseguenti doveri e diritti.
Giova ricordare che si tratta di una forma straordinaria di affidamento della cura pastorale, dovuta all’impossibilità di nominare un parroco o un amministratore parrocchiale, da non confondere con l’ordinaria cooperazione attiva e con l’assunzione di responsabilità da parte di tutti i fedeli.
89. In vista del ricorso a tale rimedio straordinario, occorre preparare adeguatamente il Popolo di Dio, avendo poi cura di adottarlo solo per il tempo necessario, non indefinitamente[134]. La retta comprensione e applicazione di tale canone richiede che il ricorso a quanto previsto, «avvenga nell’accurato rispetto delle clausole in esso contenute, ovvero: a)“per carenza di sacerdoti”,e non per ragioni di comodità o di una equivoca “promozione del laicato” […]; b) fermo restando che si tratta di“partecipazione nell’esercizio della cura pastorale”e non di dirigere, coordinare, moderare, governare la parrocchia; cosa che, secondo il testo del canone, compete solo ad un sacerdote»[135].
90. In vista di condurre a buon fine l’affidamento della cura pastorale secondo il can. 517, § 2[136], occorre attenersi ad alcuni criteri. Innanzitutto, trattandosi di una soluzione pastorale straordinaria e temporanea[137], l’unica causa canonica che rende legittimo il ricorso a essa è una mancanza di sacerdoti, tale che non sia possibile provvedere alla cura pastorale della comunità parrocchiale con la nomina di un parroco o di un amministratore parrocchiale. Inoltre, uno o più diaconi saranno da preferire a consacrati e laici per tale forma di gestione della cura pastorale[138].
91. In ogni caso, il coordinamento dell’attività pastorale così organizzata compete al presbitero designato dal Vescovo diocesano come Moderatore; esclusivamente tale sacerdote ha le potestà e le facoltà proprie del parroco; gli altri fedeli hanno, invece, «una partecipazione all’esercizio della cura pastorale della parrocchia»[139].
92. Sia il diacono, sia le altre persone non insignite dell’ordine sacro, che partecipano all’esercizio della cura pastorale, possono compiere soltanto le funzioni che corrispondono al rispettivo stato diaconale o di fedele laico, rispettando «le proprietà originarie di diversità e complementarietà tra i doni e le funzioni dei ministri ordinati e dei fedeli laici, proprie della Chiesa che Dio ha voluto organicamente strutturata»[140].
93. Infine, nel Decreto con cui nomina il presbitero Moderatore è vivamente raccomandato che il Vescovo esponga, almeno sommariamente, le motivazioni in virtù delle quali si è resa necessaria l’applicazione di una forma straordinaria di affidamento della cura pastorale di una o più comunità parrocchiali e, conseguentemente, le forme dell’esercizio del ministero del sacerdote incaricato.
IX. Incarichi e ministeri parrocchiali
94. Oltre alla collaborazione occasionale, che ogni persona di buona volontà – anche i non battezzati – può offrire alle attività quotidiane della parrocchia, esistono alcuni incarichi stabili, in base ai quali i fedeli accolgono la responsabilità per un certo tempo di un servizio all’interno della comunità parrocchiale. Si può pensare, ad esempio, ai catechisti, ai ministranti, agli educatori che operano in gruppi e associazioni, agli operatori della carità e a quelli che si dedicano ai diversi tipi di consultorio o centro di ascolto, a coloro che visitano i malati.
95. In ogni caso, nel designare gli incarichi affidati ai diaconi, ai consacrati e ai fedeli laici che ricevono una partecipazione all’esercizio della cura pastorale, occorre usare una terminologia che corrisponda in modo corretto alle funzioni che essi possono esercitare conformemente al loro stato, così da mantenere chiara la differenza essenziale che intercorre tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale, e in modo che sia evidente l’identità dell’impegno ricevuto da ciascuno.
96. In tale senso, innanzitutto, è responsabilità del Vescovo diocesano e, per quanto gli compete, del parroco, che gli incarichi dei diaconi, dei consacrati e dei laici, che hanno ruoli di responsabilità in parrocchia, non siano designati con le espressioni di “parroco”, “co-parroco”, “pastore”, “cappellano”, “moderatore”, “coordinatore”, “responsabile parrocchiale” o con altre denominazioni simili[141], riservate dal diritto ai sacerdoti[142], in quanto hanno diretta attinenza con il profilo ministeriale dei presbiteri.
Nei confronti dei suddetti fedeli e dei diaconi, risultano parimenti illegittime e non conformi alla loro identità vocazionale, espressioni come «affidare la cura pastorale di una parrocchia», «presiedere la comunità parrocchiale», e altre similari, che si riferiscono alla peculiarità del ministero sacerdotale, che compete al parroco.
Più appropriata sembra essere, ad esempio, la denominazione di “diacono cooperatore” e, per i consacrati e i laici, di “coordinatore di.. (un settore della pastorale)”, di “cooperatore pastorale”, di “assistente pastorale” e di “incaricato di.. (un settore della pastorale)”.
97. I fedeli laici a norma del diritto possono essere istituiti lettori e accoliti in forma stabile, tramite apposito rito, secondo il can. 230, § 1. Il fedele non ordinato può assumere la denominazione di “ministro straordinario” solo se, effettivamente, è stato chiamato dall’Autorità competente[143] a compiere le funzioni di supplenza di cui ai cann. 230, § 3 e 943. La deputazione temporanea nelle azioni liturgiche, di cui al can. 230, § 2, anche se si protrae nel tempo, non conferisce alcuna denominazione speciale al fedele non ordinato[144].
Tali fedeli laici devono essere in piena comunione con la Chiesa Cattolica[145], aver ricevuto una formazione adeguata alla funzione che sono chiamati a svolgere, nonché tenere una condotta personale e pastorale esemplare, che li renda autorevoli nello svolgere il servizio.
98. Oltre a quanto compete ai Lettori e agli Accoliti stabilmente istituiti[146], il Vescovo, a suo prudente giudizio, potrà affidare ufficialmente alcuni incarichi[147] ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici, sotto la guida e la responsabilità del parroco, come, ad esempio:
1°. La celebrazione di una liturgia della Parola nelle domeniche e nelle feste di precetto, quando «per mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica»[148]. Si tratta di una eventualità eccezionale, a cui fare ricorso solo in circostanze di vera impossibilità e sempre avendo cura di affidare tali liturgie ai diaconi, qualora siano presenti;
2°. L’amministrazione del battesimo, tenendo presente che «ministro ordinario del battesimo è il Vescovo, il presbitero e il diacono»[149] e che quanto previsto dal can. 861, § 2 costituisce un’eccezione, da valutarsi a discrezione dell’Ordinario del luogo;
3°. La celebrazione del rito delle esequie, nel rispetto di quanto previsto dal n. 19 dei Praenotanda dell’Ordo exsequiarum.
99. I fedeli laici possono predicare in una chiesa o in un oratorio, se le circostanze, la necessità o un caso particolare lo richiedano, «secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale»[150] e «in conformità al diritto o alle norme liturgiche e nell’osservanza delle clausole in essi contenute»[151]. Essi non potranno invece in alcun caso tenere l’omelia durante la celebrazione dell’Eucaristia[152].
100. Inoltre, «dove mancano sacerdoti e diaconi, il Vescovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza dalla Santa Sede, può delegare dei laici perché assistano ai matrimoni»[153].
X. Gli organismi di corresponsabilità ecclesiale
X.a. Il Consiglio parrocchiale per gli Affari Economici
101. La gestione dei beni di cui ogni parrocchia in diversa misura dispone è un ambito importante di evangelizzazione e di testimonianza evangelica, di fronte alla Chiesa e alla società civile, in quanto, come ha ricordato Papa Francesco, «tutti i beni che abbiamo, il Signore ce li dà per far andare avanti il mondo, per far andare avanti l’umanità, per aiutare gli altri»[154]. Il parroco, quindi, non può e non deve restare solo in tale compito[155], ma è necessario che sia assistito da collaboratori per amministrare i beni della Chiesa innanzitutto con zelo evangelizzatore e spirito missionario[156].
102. Per tale ragione, in ogni parrocchia deve necessariamente essere costituito il Consiglio per gli Affari Economici, organismo consultivo, presieduto dal parroco e formato da almeno altri tre fedeli[157]; il numero minimo di tre è necessario perché si possa considerare “collegiale” tale Consiglio; giova ricordare che il parroco non è compreso tra i membri del Consiglio per gli Affari Economici, ma lo presiede.
103. In assenza di norme specifiche date dal Vescovo diocesano, sarà il parroco a determinare il numero dei membri del Consiglio, in rapporto alle dimensioni della parrocchia, e se essi debbano essere da lui nominati, o piuttosto eletti dalla comunità parrocchiale.
I membri di tale consiglio, non necessariamente appartenenti alla parrocchia stessa, devono essere di provata buona fama, nonché esperti in questioni economiche e giuridiche[158], tali da poter rendere un servizio effettivo e competente, in modo che il Consiglio non sia costituito solo formalmente.
104. Infine, a meno che il Vescovo diocesano non abbia disposto altrimenti, osservate la dovuta prudenza, nonché eventuali norme di diritto civile, nulla vieta che la medesima persona possa essere membro del Consiglio per gli Affari Economici di più parrocchie, qualora le circostanze lo richiedano.
105. Le norme eventualmente emanate in materia da parte del Vescovo diocesano dovranno tenere conto delle situazioni specifiche delle parrocchie, come ad esempio di quelle di consistenza particolarmente modesta o di quelle facenti parte di una unità pastorale[159].
106. Il Consiglio per gli Affari Economici può svolgere un ruolo di particolare importanza nel far crescere, all’interno delle comunità parrocchiali, la cultura della corresponsabilità, della trasparenza amministrativa e del sovvenire alle necessità della Chiesa. In modo particolare, la trasparenza va intesa non solo come formale presentazione di dati, ma piuttosto come doverosa informazione della comunità, e proficua opportunità per un suo coinvolgimento formativo. Si tratta di un modus agendi imprescindibile per la credibilità della Chiesa, soprattutto dove questa si trova ad avere beni significativi da amministrare.
107. Ordinariamente, l’obiettivo della trasparenza può essere conseguito pubblicando il rendiconto annuale che deve essere prima presentato all’Ordinario del luogo[160], con l’indicazione dettagliata delle entrate e delle uscite. Così, dal momento che i beni sono della parrocchia, non del parroco, che pure ne è amministratore, la comunità nel suo insieme potrà essere consapevole di come i beni sono stati amministrati, di quale sia la situazione economica della parrocchia e di quali risorse essa possa effettivamente disporre.
X.b. Il Consiglio pastorale parrocchiale
108. La vigente normativa canonica[161] lascia al Vescovo diocesano la valutazione circa l’erezione nelle parrocchie di un Consiglio pastorale, che può comunque essere considerato ordinariamente come vivamente raccomandato, come ha ricordato Papa Francesco, «Quanto sono necessari, i consigli pastorali! Un Vescovo non può guidare una diocesi senza i consigli pastorali. Un parroco non può guidare la parrocchia senza i consigli pastorali»[162].
L’elasticità della norma permette comunque gli adattamenti ritenuti opportuni nelle circostanze concrete, come, ad esempio, nel caso di più parrocchie affidate a un solo parroco, o in presenza di unità pastorali: è possibile in tali casi costituire un unico Consiglio pastorale per più parrocchie.
109. Il senso teologico del Consiglio pastorale si iscrive nella realtà costitutiva della Chiesa, cioè il suo essere “Corpo di Cristo”, che genera una “spiritualità di comunione”. Nella Comunità cristiana, infatti, la diversità di carismi e ministeri che deriva dall’incorporazione al Cristo e dal dono dello Spirito, non può mai essere omologata fino a diventare «uniformità, obbligo di fare tutto insieme e tutto uguale, di pensare tutti sempre allo stesso modo»[163]. Al contrario, in virtù del sacerdozio battesimale[164], ogni fedele è stabilito per l’edificazione di tutto il Corpo e, al contempo, l’insieme del Popolo di Dio, nella reciproca corresponsabilità dei suoi membri, partecipa della missione della Chiesa, cioè discerne nella storia i segni della presenza di Dio e diventa testimone del Suo Regno[165].
110. Lungi dall’essere un semplice organismo burocratico, dunque, il Consiglio pastorale mette in rilievo e realizza la centralità del Popolo di Dio come soggetto e protagonista attivo della missione evangelizzatrice, in virtù del fatto che ogni fedele ha ricevuto i doni dello Spirito attraverso il battesimo e la cresima: «Rinascere alla vita divina nel battesimo è il primo passo; occorre poi comportarsi da figli di Dio, ossia conformarsi al Cristo che opera nella santa Chiesa, lasciandosi coinvolgere nella sua missione nel mondo. A ciò provvede l’unzione dello Spirito Santo: “senza la sua forza, nulla è nell’uomo” (cfr Sequenza di Pentecoste). […] Come tutta la vita di Gesù fu animata dallo Spirito, così pure la vita della Chiesa e di ogni suo membro sta sotto la guida del medesimo Spirito»[166].
Alla luce di questa visione di fondo, si possono ricordare le parole di S. Paolo VI secondo il quale «È compito del Consiglio Pastorale studiare, esaminare tutto ciò che concerne le attività pastorali, e proporre quindi conclusioni pratiche, al fine di promuovere la conformità della vita e dell’azione del Popolo di Dio con il Vangelo»[167], nella consapevolezza che, come ha ricordato Papa Francesco, il fine di tale Consiglio «non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti»[168].
111. Il Consiglio pastorale è un organismo consultivo, retto dalle norme stabilite dal Vescovo diocesano, per definirne i criteri di composizione, le modalità di elezione dei membri, gli obiettivi e il modo di funzionamento[169]. In ogni caso, per non snaturare l’indole di tale Consiglio è bene evitare di definirlo “team” o “équipe”, vale a dire in termini non idonei a esprimere correttamente il rapporto ecclesiale e canonico tra il parroco e gli altri fedeli.
112. Nel rispetto delle relative norme diocesane, è necessario che il Consiglio pastorale sia effettivamente rappresentativo della comunità della quale è espressione in tutte le sue componenti (presbiteri, diaconi, consacrati e laici). Esso costituisce un ambito specifico in cui i fedeli possono esercitare il loro diritto-dovere di esprimere il proprio pensiero ai pastori e comunicarlo anche agli altri fedeli, circa il bene della comunità parrocchiale[170].
La funzione principale del Consiglio Pastorale Parrocchiale sta pertanto nel ricercare e studiare proposte pratiche in ordine alle iniziative pastorali e caritative che riguardano la parrocchia, in sintonia con il cammino della diocesi.
113. Il Consiglio Pastorale Parrocchiale «ha solamente voto consultivo»[171], nel senso che le sue proposte devono essere accolte favorevolmente dal parroco per diventare operative. Il parroco poi è tenuto a considerare attentamente le indicazioni del Consiglio Pastorale, specie se espresse all’unanimità, in un processo di comune discernimento.
Perché il servizio del Consiglio pastorale possa essere efficace e proficuo, occorre evitare due estremi: da una parte, quello del parroco che si limita a presentare al Consiglio pastorale decisioni già prese, o senza debita informazione previa, oppure che lo convoca di rado solo pro forma; dall’altra, quello di un Consiglio in cui il parroco è solo uno dei membri, privato di fatto del suo ruolo di pastore e guida della comunità[172].
114. Infine, è ritenuto conveniente che, per quanto possibile, il Consiglio pastorale sia composto per lo più da coloro che hanno effettive responsabilità nella vita pastorale della parrocchia, o che in essa sono concretamente impegnati, al fine di evitare che le riunioni si trasformino in uno scambio di idee astratte, che non tengono conto della vita reale della comunità, con le sue risorse e problematicità.
X.c. Altre forme di corresponsabilità nella cura pastorale
115. Quando una comunità di fedeli non può essere eretta come parrocchia o quasi-parrocchia[173], il Vescovo diocesano, sentito il Consiglio presbiterale[174], provvederà in altro modo alla sua cura pastorale[175], valutando ad esempio la possibilità di stabilire centri pastorali, dipendenti dal parroco del luogo, come “stazioni missionarie” per promuovere l’evangelizzazione e la carità. In tali casi, occorre dotare tale centro pastorale di una chiesa idonea o di un oratorio[176] e creare una normativa diocesana di riferimento per le sue attività, in modo che esse siano coordinate e complementari rispetto a quelle della parrocchia.
116. I centri così definiti, che in alcune diocesi sono chiamati “diaconie”, potranno essere affidati – ove possibile – a un vicario parrocchiale, o anche, in special modo, a uno o più diaconi permanenti, che ne abbiano la responsabilità e li gestiscano eventualmente insieme alle loro famiglie, sotto la responsabilità del parroco.
117. Tali centri potranno divenire avamposti missionari e strumenti di prossimità, soprattutto nelle parrocchie con un territorio molto esteso, in modo da assicurare momenti di preghiera e adorazione eucaristica, catechesi e altre attività a beneficio dei fedeli, in special modo quelle relative alla carità verso i poveri e i bisognosi e alla cura degli ammalati, sollecitando la collaborazione di consacrati e laici, nonché di ogni persona di buona volontà.
Tramite il parroco e gli altri presbiteri della comunità, sarà cura dei responsabili del centro pastorale garantire la celebrazione quanto più possibile frequente dei Sacramenti, soprattutto della Santa Messa e della Riconciliazione.
XI. Offerte per la celebrazione dei Sacramenti
118. Un tema connesso alla vita delle parrocchie e alla loro missione evangelizzatrice è quello dell’offerta data per la celebrazione della S. Messa, destinata al sacerdote celebrante, e degli altri sacramenti, che spetta invece alla parrocchia[177]. Si tratta di un’offerta che, per sua natura, deve essere un atto libero da parte dell’offerente, lasciato alla sua coscienza e al suo senso di responsabilità ecclesiale, non un “prezzo da pagare” o una “tassa da esigere”, come se si trattasse di una sorta di “imposta sui sacramenti”. Infatti, con l’offerta per la Santa Messa, «i fedeli […] contribuiscono al bene della Chiesa e […] partecipano della sua sollecitudine per il sostentamento dei ministri e delle opere»[178].
119. In tal senso, si rivela importante l’opera di sensibilizzazione dei fedeli, perché contribuiscano volentieri alle necessità della parrocchia, che sono “cosa loro” e di cui è bene che imparino spontaneamente a prendersi cura, in special modo in quei Paesi dove l’offerta della Santa Messa è ancora l’unica fonte di sostentamento per i sacerdoti e anche di risorse per l’evangelizzazione.
120. La suddetta sensibilizzazione potrà procedere tanto più efficacemente quanto più i presbiteri da parte loro offriranno esempi “virtuosi” nell’uso del denaro, sia con uno stile di vita sobrio e senza eccessi sul piano personale, che con una gestione dei beni parrocchiali trasparente e commisurata non su “progetti” del parroco o di un gruppo ristretto di persone, magari buoni, ma astratti, bensì sui reali bisogni dei fedeli, soprattutto i più poveri e bisognosi.
121. In ogni caso, «dall’offerta delle Messe deve essere assolutamente tenuta lontana anche l’apparenza di contrattazione o di commercio»[179], tenuto conto che «è vivamente raccomandato ai sacerdoti di celebrare la Messa per le intenzioni dei fedeli, soprattutto dei più poveri, anche senza ricevere alcuna offerta»[180].
Tra gli strumenti che possono consentire il raggiungimento di tale fine, si può pensare alla raccolta delle offerte in modo anonimo, così che ciascuno si senta libero di donare ciò che può, o che ritiene giusto, senza sentirsi in dovere di corrispondere a un’attesa o a un prezzo.
122. Richiamando l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, alla luce del recente Magistero e considerando i contesti sociali e culturali profondamente mutati, la presente Istruzione intende mettere a fuoco il tema del rinnovamento della parrocchia in senso missionario.
Mentre essa rimane un’istituzione imprescindibile per l’incontro e la relazione viva con Cristo e con i fratelli nella fede, è altrettanto vero che deve costantemente confrontarsi con i cambiamenti in atto nella cultura odierna e nell’esistenza delle persone, così da poter esplorare con creatività vie e strumenti nuovi, che le consentano di essere all’altezza del suo compito primario, cioè essere il centro propulsore dell’evangelizzazione.
123. Di conseguenza, l’azione pastorale ha bisogno di andare oltre la sola delimitazione territoriale della parrocchia, di far trasparire più chiaramente la comunione ecclesiale attraverso la sinergia tra ministeri e carismi diversi e, nondimeno, di strutturarsi come una “pastorale d’insieme” a servizio della diocesi e della sua missione.
Si tratta di un agire pastorale che, tramite un’effettiva e vitale collaborazione tra presbiteri, diaconi, consacrati e laici, nonché tra diverse comunità parrocchiali di una stessa area o regione, si preoccupa di individuare insieme le domande, le difficoltà e le sfide riguardanti l’evangelizzazione, cercando di integrare vie, strumenti, proposte e mezzi idonei per affrontarle. Un tale progetto missionario comune potrebbe essere elaborato e realizzato in relazione a contesti territoriali e sociali contigui, cioè in comunità confinanti o accomunate dalle medesime condizioni socio-culturali, oppure in riferimento ad ambiti pastorali affini, ad esempio nel quadro di un necessario coordinamento tra pastorale giovanile, universitaria e vocazionale, come già avviene in parecchie diocesi.
La pastorale d’insieme, perciò, oltre a un coordinamento responsabile delle attività e di strutture pastorali capaci di relazionarsi e collaborare tra loro, richiede il contributo di tutti i battezzati. Con le parole di Papa Francesco, «Quando parliamo di “popolo” non si deve intendere le strutture della società o della Chiesa, quanto piuttosto l’insieme di persone che non camminano come individui ma come il tessuto di una comunità di tutti e per tutti»[181].
Ciò esige che la storica istituzione parrocchiale non rimanga prigioniera dell’immobilismo o di una preoccupante ripetitività pastorale ma, invece, metta in atto quel “dinamismo in uscita” che, attraverso la collaborazione tra comunità parrocchiali diverse e una rinsaldata comunione tra chierici e laici, la renda effettivamente orientata alla missione evangelizzatrice, compito dell’intero Popolo di Dio, che cammina nella storia come “famiglia di Dio” e che, nella sinergia dei diversi membri, lavora per la crescita di tutto il corpo ecclesiale.
Il presente Documento, perciò, oltre a evidenziare l’urgenza di un simile rinnovamento, presenta un modo di applicare la normativa canonica che stabilisce le possibilità, i limiti, i diritti e i doveri di pastori e laici, perché la parrocchia riscopra se stessa come luogo fondamentale dell’annuncio evangelico, della celebrazione dell’Eucaristia, spazio di fraternità e carità, da cui si irradia la testimonianza cristiana per il mondo. Essa, cioè, «deve rimanere come un posto di creatività, di riferimento, di maternità. E lì attuare quella capacità inventiva; e quando una parrocchia va avanti così si realizza quello che io chiamo “parrocchia in uscita”»[182].
124. Papa Francesco invita a invocare «Maria, Madre dell’evangelizzazione», affinché «ci aiuti la Vergine a dire il nostro “sì” nell’urgenza di far risuonare la Buona Notizia di Gesù nel nostro tempo; ci ottenga un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita che vince la morte; interceda per noi affinché possiamo acquistare la santa audacia di cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della salvezza»[183].
Il 27 Giugno 2020, il Santo Padre ha approvato il presente Documento della Congregazione per il Clero.
Roma, 29 Giugno 2020, Solennità dei SS. Pietro e Paolo.
✠ Beniamino Card. Stella |
|
✠ Joël Mercier Segretario |
✠ Jorge Carlos Patrón Wong Segretario per i Seminari |
Mons. Andrea Ripa Sotto-Segretario |